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Massimiliano Vurro

I sette errori dell’inventore: tra pop e serendipità

Qualche mese fa, complice la serendipità, incontro un ex collega del Politecnico, nonché amico, in circostanze piacevoli, lontano da impegni di lavoro.

Non che lavoro e piacere non possano coesistere, ma in alcuni momenti della nostra vita a mio avviso la creatività “scorre” meglio se c’è il giusto mix di spensieratezza ed angoscia (cit. Albert Einstein) ad attivare le presunte basi di un’economia pop (cit. Luciano Canova).

Inconsapevole, mi trovavo esattamente in tale circostanza: un tuo vecchio amico ti anestetizza con i suoi ultimi vent’anni di vita (spensieratezza) e ti risveglia raccontandoti il progetto su cui intende investire i risparmi accumulati duramente nello stesso periodo (angoscia).

Mentre mi spiegava i bisogni latenti dell’umanità intera (qui si manifesta l’effetto pop) a cui il suo prodotto avrebbe dato risposta, ad un tratto lo interrompo chiedendogli dove fosse il prodotto.

Il prodotto, come avevo intuito non esisteva ancora. Non c’era nulla.

Gli ho proposto così di rimandare ad un successivo incontro, prototipo reale o virtuale alla mano, per programmare il lancio di un test A/B in una community ristretta con l’obiettivo di valutarne l’usabilità e l’appeal e ricevere quante più informazioni possibili.

Il test lo avremmo fatto qualche mese dopo, con un buon margine di successo, secondo i principi della produzione condivisa, attuando lo stesso processo utilizzato nel game design per trasformare  il semplice lancio di una console di gioco (Playstation o Wii-u o X-box) in un’esperienza per cui l’utente è disposto a pagare tre volte per la stessa cosa: la prima volta mettendo a disposizione il suo tempo come tester, la seconda acquistando un’esperienza di gioco capace di mandarlo fuori di testa, la terza spendendo altro tempo per animare la competizione on-line (mandando fuori di testa un genitore nei paraggi).

Uscito dal suo ufficio, ho pensato si trovasse allo stadio in cui si trovano esattamente il 95% dei progetti ad alto rischio di fallimento. In questo caso però giocava a suo favore un alleato tanto forte quanto inconsueto: la coerenza, che apparentemente, con l’approccio plurifantatecnologico a cui ci siamo abituati negli ultimi 10 anni, c’entra poco. Non è così e vi spiego il mio punto di vista.

Premesso che non sono un inventore, o almeno non un inventore a tempo pieno, nella mia esperienza di sviluppo d’innovazione, la maggior parte dei migliori inventori incontrati non è costituita da smanettoni da garage, bensì  da impiegati annoiati che sfuggono alla routine aziendale e da imprenditori schiacciati dal peso dell’impresa o dei soci di cui non riescono a liberarsi.

Solo dopo qualche scivolone e a distanza di diverse migliaia di euro spesi, i primi, gli impiegati annoiati, capiscono che sull’artefatto del “garage” ci puoi costruire certamente una storia da raccontare agli amici nelle serate d’estate e magari un archibugio funzionante (un unico pezzo quasi mai due), mentre i secondi, gli imprenditori, più avvezzi al rischio si ravvedono e raccontano di persona il fallimento in un TED talk o lo fanno raccontare dal cronista del telegiornale regionale.

Questa però è anche l’occasione (e qui di nuovo si manifesta l’effetto pop), in cui  l’impiegato inventore diventa un imprenditore e si licenzia dal suo posto di lavoro “novecentesco e sicuro”e l’imprenditore diventa un inventore innovando la sua azienda.

Tutti gli altri, gli startupper, quelli della metafora dell’incoscienza americana, giocano privati di ogni altra opportunità a causa della disoccupazione tecnologica, cercando di imitare Steve Jobs o Larry Page foraggiando l’ecosistema della teoria dell’innovazione egregiamente rappresentato dal terribile luogo comune che divide la galassia in “makers” e “gufi”.

L’archetipo dell’inventore da garage nasce negli States nel 1920. A quei tempi, lo spazio del garage garantiva all’engineering ruspante nei sobborghi delle neo città in espansione, abbastanza spazio per stipare attrezzature ingombranti, oggi pressoché inutili a meno che tu non stia costruendo un cavallo di troia in scala 1:1

Entrando nel campo dei prodotti fisici, gli inventori conosciuti fino ad oggi, che mi hanno stupito ed appassionato sono quasi tutti super competenti nella loro materia, entusiasti, ottimisti, felici,  ma solo raramente valutano l’impatto devastante di 7 comunissimi errori:

  1. Acquistare on line un servizio di prototipazione rapida senza aver creato un modello virtuale 3d, dei rendering, delle liste materiali, delle note e dei riferimenti chiari sulle tolleranze richieste. A meno che non parli mandarino le immagini sono il migliore (ed unico) alleato per farti capire da un ingegnere dall’altro capo del mondo.
  2. Sprecare 8 ore per stampare pochi cm di ABS a geometria grezza con la magnifica stampante 3D che hai fatto in casa. Attese e sperimentazione fanno parte della tua  ricerca ma per industrializzare un prodotto devi considerare da subito la standardizzazione del processo. Esagerando, se dovessi stampare 5 milioni di pezzi impiegheresti per ciascuno 8 ore?
  3. Investire denaro per un brevetto globale la cui paternità è economicamente indifendibile a 2 ore di volo dalla sede della tua azienda. Perché proteggere con patent il tuo prodotto se poi non sei in grado di affrontare i costi di un’azione legale presso un tribunale nazionale?
  4. Scoprire solo a prototipo ultimato che esistono degli standard a cui è, (anche se su base volontaria) preferibile conformarsi per garantire una qualche presunzione di conformità. Saresti ad esempio in grado di provare al mercato che hai progettato i guasti del tuo software e che hai dominio assoluto del codice sorgente prima che il guasto provochi danni o un incidente?
  5. Procedere alla prototipazione senza fare un’approfondita ricerca pre-brevettuale o un’analisi della concorrenza che vada oltre la visione di un centinaio di video su youtube o scandagliando solo le informazioni degli inventori fai da te (makers) nella parte non indicizzata del web (deep internet).
  6. Affrontare lo scenario “zero budget”, continuando a celare o tenere nel “cassetto” il tuo prodotto, con la paura infondata che qualcuno “ti rubi l’idea”. L’umanità è pigra e la tua grande idea rimarrà nel cassetto per il resto della tua vita.
  7. Non programmare da subito un tempo di realizzazione relativamente accettabile. Un anno, dieci anni. Non importa, ma ad un certo punto bisogna riconoscere se si è ingrado di “uscire” ad affrontare il mercato. Diversamente è un esercizio di stile, molto pericoloso.

Ma torno al mio collega ed alla sua coerenza. Il prototipo era funzionante, a costo accettabile, realizzabile in tempi ragionevoli, con uno standard di qualità costruito anche grazie alle informazioni ricevute dai tester, ma non aveva sostenuto, poiché sottovalutato, l’impatto del cambiamento delle normative di settore. Così il prodotto era già vecchio ancor prima di andare sul mercato.

Il mio collega ha fallito, riconoscendo i limiti della sua strategia, ma oggi anche grazie a quell’errore è uno dei migliori imprenditori che io conosca e sa farsi trovare preparato al successo.

Certo non è un unicorno (rappresentazione figurativa di azienda americana con valutazione pari o superiore al miliardo di dollari) ma non è nemmeno uno dei tanti animali mitologici che galleggiano sullo storytelling “da banco” in cui la pseudoscienza a costo zero rende miliardari in Silicon Valley. E’ felice e questo aspetto è di nuovo molto pop.

 

Il signore nell’immagine qui sopra è Douglas Engelbart, l’inventore del mouse per computer. Brevettò l’invenzione nel 1968, il brevetto scadette nel 1987. Solo dopo di allora la tecnologia divenne d’uso comune e lui non guadagnò mai un centesimo per la sua geniale invenzione.