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Massimiliano Vurro

E-commerce cinesi e guanxi per l’eccellenza Made in Italy?

Con il termine guanxi si indicano le relazioni  alla base di ogni tipo di rapporto sociale ed economico in Cina, un network di persone a cui fare riferimento quando ne hai bisogno. Tienilo a mente, perché cercherò di spiegarti a cosa può esserti utile la guanxi se hai intenzione di vendere in Cina, di mettere il tuo prodotto su Alibaba quando sarà il momento o semplicemente ottenere uno sconto dal ristoratore cinese all’angolo quando festeggerai il compleanno di tuo figlio nel suo locale.

Partiamo da Alibaba. Il colosso cinese dell’e-commerce fondato da Jack Ma, è sbarcato in Italia con l’obiettivo principale di  condurre il portale su altri mercati, dato che il risparmiatore cinese non basta più e l’economia cinese è in forte rallentamento dopo gli scossoni allo yuan di quest’estate.

L’Italia ha un tessuto infinito di piccole e medie imprese agguerrite e resilienti ed un risvolto importante in questa operazione di internazionalizzazione di Alibaba è  la possibilità di stringere accordi con queste PMI per poi portare un prodotto di qualità in Cina.

Quindi Alibaba in Italia è una buona notizia?

Senza dubbio, ma c’è un problema che può impattare non poco sull’autenticità e la protezione intellettuale del prodotto Made in Italy in Cina. Si tratta di un tassello fermo in un fascicolo a Strasburgo,  che oggi non permette  di garantire al 100% il Made in Italy  – qui parlo prevalentemente del non alimentare –  sui mercati del Far East. L’etichettatura Made in Italy per i prodotti non alimentari non è infatti obbligatoria (salvo alcuni casi).

Veniamo al paradosso. Come farà il consumatore cinese a sincerarsi che il prodotto Made in Italy non è stato contraffatto?

Forse stai pensando che siamo invasi da prodotti made in china  Made in China di bassa qualità e che il peggiore dei prodotti fatto in Italia non ha nessuna difficoltà a penetrare il mercato cinese. Non è però esattamente così e ti spiego perché.

Più di 500 anni di conversazione al giorno ed un nuovo paradigma di shopping.

Devi sapere che l’acquirente cinese opera su e-commerce in maniera totalmente diversa dal consumatore occidentale. A settembre del 2015, per entrare nell’ottica dei numeri, Wechat (l’equivalente gratuito del nostro  – che poi non è nostro – Whatsapp), ha avuto 570 milioni di utenti attivi… al giorno. Cosa ci faceva tutta questa gente su Wechat? Ha utilizzato chat audio per per circa 280 milioni di minuti al giorno, l’equivalente di 540 anni di chiamate telefoniche al giorno. Ma soprattutto, il 60% di questi utenti ha fatto shopping online.

Così anche Tim Cook, CEO di Apple ha deciso di  “tirar su” 300 milioni di follower aprendosi un account su Weibo, piattaforma cinese di microblogging simile a twitter e che a settembre 2015 contava  circa 222 milioni di utilizzatori attivi di cui  l’85% da mobile. Per approfondire dai uno sguardo agli insight su ChinaInternetWatch.

Questi dati e questi comportamenti rimettono in discussione lo standard commerciale di tutte le aziende Italiane che oggi vanno in Cina “ancora” con una vetrina fisica e per dire “io ci sono”. Che poi se lo possano permettere è un altro aspetto.


Aumenteranno gli appartenenti alla classe media cinese con soldi da spendere (non troppi però).

Secondo quanto riportato da Jack Ma (Ceo di Alibaba) all’ APEC CEO SUMMIT 2015 il numero degli appartenenti alla classe media aumenterà dagli attuali 300 milioni a 500 milioni nel 2030. A confortare questo trend la tesi di Robert Fogel, Premio Nobel per l’Economia,  secondo cui nel 2040 il PIL pro capite cinese raggiungerà il tetto di 85.000 dollari americani.

Insomma si sta costruendo un “mega-target“di consumatori tra i 25 ed i 40 anni disposto a comprare prodotti italiani, con un buon grado di istruzione ed impiegata nei grandi centri urbani, che per ora però ha un potere di acquisto in Cina di soli 300€ al mese. Non tutti gli imprenditori a questo punto saranno disposti a rivedere a ribasso il prezzo del loro prodotto per essere competitivi. Per fortuna, mi sento di aggiungere.

Il consumatore cinese viene accompagnato costantemente.

Il consumatore cinese on-line è pretenzioso ed è molto accompagnato nella sua esperienza di acquisto, spesso è affiancato da un servizio commerciale chat in tempo reale.

Anche se il tuo prodotto è unico va adattato al gusto locale (qualche volta)

Probabilmente non sarai d’accordo su questo aspetto se il tuo prodotto è di nicchia ed hai sudato molto per renderlo tale, ma prova a pensare a come le multinazionali adattano i loro prodotti ai gusti locali. In Cina per esempio Mc Donald ha dovuto potenziare i menù di pollo perché la carne rossa funzionava meno. Molte “food company” stanno ridefinendo, a volte forzandola,  un anuova cultura di alimenti etno-specifici.

Ma c’è il rovescio della medaglia, anzi dello yuan. In Italia ad esempio l’esperimento “mediterraneo” del colosso del burger non è andato benissimo ed anzi ha incentivato lo street food locale a costruire sul prodotto (a volte a Km zero) a filiera garantita il suo punto di forza.

Questo potrà accadere anche in Cina con i prodotti italiani? Wo bù zhidao (traduzione in italiano: non lo so), ma a mio avviso è probabile a causa della grande competitività dei cinesi (qui serve la guanxi) sul proprio territorio e da una maggiore consapevolezza del sistema di regolamentazione locale.

Garantire il Made in Italy in Italia non è così semplice, figuriamoci in Cina

Il governo cinese fa controlli a valle e a monte della filiera e se qualcosa non torna “fornitore bloccato!”. Ma il concetto di tracciabilità fuori dai confini europei ha un significato ed un costo ben diverso oltre a non essere così evoluto come il nostro.

Il 15 aprile 2014 il Parlamento Europeo ha approvato la proposta di regolamento sulla sicurezza generale dei prodotti che prevede l’obbligo dell’indicazione di origine sui prodotti non alimentari venduti in Europa e non ancora soggetti ad armonizzazione Europea, il così detto “made in”.

Oggi il “Made in Italy” è un valore percepito legato all’autenticità e alla manifattura del prodotto e conferisce una connotazione di qualità al prodotto non alimentare. In altri casi, non pochi, è sinonimo di contraffazione o fallace indicazione dell’origine.

L’art. 16 della Legge 20 novembre 2009, n. 166, “Made in Italy e prodotti interamente italiani” ha stabilito che l’importazione e l’esportazione di prodotti recanti falsi o fallaci indicazioni di provenienza o di origine costituisce reato ed è punita ai sensi dell’art. 517 del codice penale.

Tale legge prevede che la dicitura “Made in Italy” sia possibile solo su prodotti finiti per i quali almeno due delle fasi di lavorazione abbiano avuto luogo prevalentemente nel territorio nazionale e per i quali sia verificabile la tracciabilità delle rimanenti fasi. Da sottolineare che l’efficacia della legge 55/2010 è stata sospesa dalla circolare dell’Agenzia delle Dogane n. 119919/RU.

L’etichettatura indicante il paese d’origine è invece già oggi obbligatoria quando il Paese di destinazione lo richiede in forza di una propria regolamentazione interna (Cina e Stati Uniti).

Di seguito i principali sistemi di tracciabilità in Cina suddivisi per provincia:

Xining: http://xnrczs.gov.cn/dts

Sichuanhttp://www.scfoodsafe.cn/

Xiamen: http://www.xmgs.gov.cn/spaq/

Shanghai: http://www.product-trace.com

Nanjing: http://www.jiabuliao.org/index.aspx

Shandong: http://www.safefood.gov.cn/

Guangdonghttp://spsy.gdfda.gov.cn/index.do

Come si determina il paese d’origine?

Tornando in Europa ed ai prodotti non alimentari, secondo la proposta di regolamento di cui ti ho parlato sopra, al fine di determinare il paese d’origine, si dovrebbero applicare le regole d’origine non preferenziali di cui agli articoli da 59 a 62 del Regolamento (UE) n. 952/2013 ovvero origine è il luogo in cui è avvenuta “l’ultima trasformazione o lavorazione sostanziale, economicamente giustificata”, che si sia conclusa con la “fabbricazione di un prodotto nuovo o abbia rappresentato una fase importante del processo di fabbricazione”. Ovviamente sull’origine non preferenziale non impattano eventuali percentuali di merce nazionale o estera impiegata nella produzione.

La semplice importazione  non conferisce l’origine non preferenziale.

La Corte Europea di Giustizia (C-49/76 Gesellschaft für Überseehandel) ha spiegato il concetto indicando che “l’ultima trasformazione sostanziale” si verifica solamente nell’ipotesi in cui “il prodotto che ne risulta abbia composizione e proprietà specifiche che non possedeva prima di essere sottoposto a tale trasformazione o lavorazione”.

Le merci fatte tutte in Italia?

Ovviamente le merci interamente ottenute in un unico paese o territorio sono considerate originarie di tale paese o territorio (ad esempio i prodotti minerari estratti in un dato paese).

Generalmente tutte le attività di mera conservazione di un prodotto o che si limitino a modificare l’aspetto esteriore della merce, ad esempio attraverso il cambio di imballaggio, non possono essere considerate sufficienti a conferire l’origine non preferenziale alla merce in quanto non modificano nella sostanza la merce stessa.

Allo stesso modo non basta che il concept design, l’idea del prodotto, il progetto, lo stile avvengano in Italia per l’attribuzione del Made in Italy.

Anche il semplice assemblaggio di parti di articoli allo scopo di formare un articolo completo o lo smontaggio di prodotti in parti non costituisce lavorazione sufficiente a conferirne l’origine.

Secondo il nuovo regolamento, l’indicazione del paese d’origine, dovrebbe aiutare le autorità di controllo ad identificare il luogo effettivo di fabbricazione nel caso in cui il fabbricante non sia rintracciabile, in particolare qualora l’indirizzo fornito sia diverso da quello del luogo effettivo di fabbricazione, il nome e il recapito del fabbricante siano completamente assenti o se l’indirizzo si trovasse sull’imballaggio di cui il consumatore frequentemente si disfa.

L’indicazione dell’origine dovrebbe costituire un complemento necessario ai requisiti di base di tracciabilità, a prescindere dal fatto che siano importati o meno, in conformità degli obblighi dell’Unione in materia di commercio internazionale.

Il regolamento, di cui si aspettava l’adozione nel 2015, non riguarderà i servizi e le attrezzature su cui i consumatori viaggiano e che sono gestite da un prestatore di servizi.

Tuttavia per assicurare la protezione della salute e della sicurezza dei consumatori, esso si applicherà a tutti i prodotti utilizzati, forniti o resi disponibili, compresi quelli ad uso professionale, ai consumatori nel contesto di una prestazione di servizi.

I prodotti di seconda mano?

Voglio trattare questo aspetto perché recentemente a Torino ha aperto  in San Salvario nei locali della libreria Zanaboni (chiusa due anni fa), la onlus Humana, che qui vende migliaia di vestiti, borse, scarpe di seconda mano raccolti attraverso i propri contenitori sparsi sul territorio nazionale per ricavarne utili da reinvestire in progetti sociali.

A tal proposito il nuovo regolamento sul Made in Italy si applicherà anche ai prodotti di seconda mano re-immessi nella catena di fornitura ma solo nell’ambito di un’attività commerciale, purché immessi sul mercato in quanto tali, nonché i prodotti di seconda mano originariamente immessi sul mercato dopo l’entrata in vigore del regolamento.

Faranno eccezione i prodotti di seconda mano per i quali il consumatore non può ragionevolmente attendersi una piena conformità alle vigenti regole di sicurezza, quali ad esempio gli oggetti di antiquariato.

chinawineE per il food?

Secondo un’indiscrezione del Wall Street Journal, non così indiscreta perché se ne parla da circa sei mesi,  Alibaba sta per immettere sul mercato asset per 1 miliardo di dollari della società di servizi online nata dalla fusione tra Maituan e Dianping Holdings Ltd, focalizzata sull’on demand (biglietteria cinema, prenotazioni ristoranti) in tutto simile a Yelp e Groupon ed in particolare sullo sviluppo di una piattaforma proprietaria denominata Koubei (che in cinese significa passaparola) incentrata sui servizi locali tra cui il food delivery e l’e-takeaway (qui gli italianisti si incazzano).

Chissà forse ci sarà un futuro non troppo lontano di food blogger italiani (o italiani di origine cinese) con un ottimo cinese scritto  pronti a sperimentare  con gli amministratori d’impresa più avvezzi alla tecnologia un nuovo paradigma della guanxi globale.

Se vuoi approfondire sul tema della guanxi ti consiglio la lettura de” La Cina non è ancora per tutti. Dialoghi sul mercato cinese” di Cristiana Barbatelli e Renzo Cavalieri di cui ti rimando ad un interessante estratto su China Files.

Se questo post ti è piaciuto condividilo anzi Koubei! (giuro che non prendo soldi da Jack Ma).