Questo post è una riedizione di un vecchio articolo che ho pubblicato qualche mese fa. Il processo di riscrittura mi aiuta ad aggiornare le idee e le informazioni. Spero che questo piccolo contributo, nella sua semplicità, possa aiutarti in qualche modo se ti interessi di intelligenza artificiale.
Nel 1984 Stephen Thaler inventa la “Macchina della Creatività”, un computer in grado di utilizzare reti neurali artificiali per generare nuove idee. Tra i risultati del processo creativo di output della macchina c’erano 11.000 canzoni originali scritte nel corso di un solo fine settimana ed un vero e proprio sistema di prototipazione a rete neurale.
Nel 1997 tale sistema venne depositato all’ufficio brevetti dallo stesso Thaler in qualità di inventore. Fu il primo brevetto erroneamente attribuito ad un umano anziché ad una macchina, ma l’ufficio patent americano non era ancora pronto (e non lo è ancora oggi) ad accettare invenzioni con paternità attribuibile ad entità creative artificiali.
Oggi la serendipità dell’invenzione sta lasciando il passo a processi di creazione automatica, meno poetici, meno casuali, meno umani ma forse più efficaci e routinari.
In futuro gli uffici brevetti accetteranno forse applicazioni di brevetto create da intelligenze artificiali, ma qui voglio raccontarti ancora una storia tra le tante e forse ultime fatta di errori umani. Quegli stessi errori che le macchine con grande difficoltà stentano, ancora per poco, a riprodurre con casualità.
Qualche tempo fa, complice la serendipità, incontro un ex collega del Politecnico, in circostanze piacevoli, lontano da impegni di lavoro.
Non che lavoro e piacere non possano coesistere, ma in alcuni momenti della nostra vita a mio avviso la creatività “scorre” meglio se c’è il giusto mix di spensieratezza ed angoscia (cit. Albert Einstein) ad attivare le presunte basi di un’economia pop (cit. Luciano Canova).
Ero nella situazione in cui un tuo vecchio conoscente ti anestetizza lamentandosi con i suoi ultimi vent’anni su questo pianeta (spensieratezza) e ti risveglia raccontandoti il progetto su cui intende investire i risparmi accumulati duramente nello stesso periodo (angoscia).
Mentre Francesco mi spiegava i bisogni latenti dell’umanità intera (manifestando così l’effetto pop) a cui il suo prodotto avrebbe dato risposta, ad un tratto lo interrompo chiedendogli barbaramente dove fosse il prodotto.
Il prodotto, come avrai intuito non esisteva ancora. Non c’era nulla, compresi tutti quegli errori che le macchine hanno ancora difficoltà a riprodurre.
Gli ho proposto così di rimandare ad un successivo incontro, con prototipo reale o virtuale alla mano, per programmare un piccolo test A/B su di una community ristretta, con l’obiettivo di valutarne l’usabilità e l’appeal e riceverne quante più informazioni possibili.
Il test lo abbiamo fatto qualche mese dopo, con un buon margine di successo, utilizzando i principi della produzione condivisa, attuando lo stesso processo utilizzato nel game design per trasformare il semplice lancio di una console di gioco in un’esperienza per cui l’utente è disposto a pagare tre volte per la stessa cosa:
- la prima volta mettendo a disposizione il suo tempo come tester;
- la seconda acquistando un’esperienza di gioco capace di mandarlo fuori di testa;
- la terza spendendo altro tempo per animare la competizione on-line (spesso mandando fuori di testa eventuali genitori nei paraggi).
Uscito dal suo ufficio, ho pensato si trovasse allo stadio in cui si trovano esattamente il 95% dei progetti ad alto rischio di fallimento. In questo caso però giocava a suo favore un alleato tanto forte quanto inconsueto: la coerenza, che apparentemente, con l’approccio pluri-fanta-tecnologico a cui ci siamo abituati negli ultimi 10 anni, c’entra poco. Non è così e ti spiego il mio punto di vista.
Premesso che non sono un inventore, o almeno non un inventore a tempo pieno, nella mia esperienza di sviluppo d’innovazione, la maggior parte dei migliori inventori incontrati non è costituita da smanettoni da garage, bensì da impiegati annoiati che sfuggono alla routine aziendale e da imprenditori schiacciati dal peso dell’impresa o dei soci di cui non riescono a liberarsi.
Solo dopo qualche scivolone e a distanza di diverse migliaia di euro spesi, i primi, gli impiegati annoiati, capiscono che sull’artefatto del “garage” ci puoi costruire certamente una storia da raccontare agli amici nelle serate d’estate e magari un archibugio funzionante (un unico pezzo quasi mai due), mentre i secondi, gli imprenditori, più avvezzi al rischio si ravvedono e raccontano di persona il fallimento in un TED talk o lo fanno raccontare, con toni drammatici, dal cronista del telegiornale regionale.
Questa però è anche l’occasione (e qui di nuovo pervade l’effetto pop), in cui l’impiegato inventore diventa un imprenditore o un artista e si licenzia abbandonando il suo posto di lavoro “novecentesco e sicuro”e l’imprenditore diventa un inventore innovando la sua azienda.
Tutti gli altri, gli startupper della metafora dell’incoscienza americana, giocano privati di ogni altra opportunità a causa della disoccupazione tecnologica (o presunta tale), cercando di imitare Steve Jobs o Larry Page foraggiando l’ecosistema della teoria dell’innovazione egregiamente rappresentato dal terribile luogo comune che divide la galassia in “makers” e “gufi”.
L’archetipo dell’inventore da garage nasce negli States nel 1920. A quei tempi, lo spazio del garage garantiva all’engineering ruspante nei sobborghi delle neo città in espansione, abbastanza spazio per stipare attrezzature ingombranti, oggi pressoché inutili a meno che tu non stia costruendo un cavallo di troia in scala 1:1
Entrando nel campo dei prodotti fisici, gli inventori conosciuti fino ad oggi, che mi hanno stupito ed appassionato, sono quasi tutti super competenti nella loro materia, entusiasti, ottimisti, felici, ma tutti almeno una volta hanno compiuto uno di questi sette comunissimi errori:
- Acquistare on line un servizio di prototipazione rapida senza aver creato un modello virtuale 3d, dei rendering, delle liste materiali, delle note e dei riferimenti chiari sulle tolleranze richieste. A meno che non parli mandarino le immagini sono il migliore (ed unico) alleato per farti capire da un ingegnere dall’altro capo del mondo.
- Sprecare 8 ore per stampare pochi cm di ABS a geometria grezza con la magnifica stampante 3D che hai fatto in casa. Attese e sperimentazione fanno parte della tua ricerca ma per industrializzare un prodotto devi considerare da subito la standardizzazione del processo. Esagerando, se dovessi stampare 5 milioni di pezzi impiegheresti per ciascuno 8 ore?
- Investire denaro per un brevetto globale la cui paternità è economicamente indifendibile a 2 ore di volo dalla sede della tua azienda. Perché proteggere con patent il tuo prodotto se poi non sei in grado di affrontare i costi di un’azione legale presso un tribunale nazionale?
- Scoprire solo a prototipo ultimato che esistono degli standard a cui è, (anche se su base volontaria) preferibile conformarsi per garantire una qualche presunzione di conformità. Saresti ad esempio in grado di provare al mercato che hai progettato i guasti del tuo software e che hai dominio assoluto del codice sorgente prima che il guasto provochi danni o un incidente?
- Procedere alla prototipazione senza fare un’approfondita ricerca pre-brevettuale o un’analisi della concorrenza che vada oltre la visione di un centinaio di video su youtube o scandagliando solo le informazioni degli inventori fai da te (makers) nella parte non indicizzata del web (deep internet).
- Affrontare lo scenario “zero budget”, continuando a celare o tenere nel “cassetto” il tuo prodotto, con la paura infondata che qualcuno “ti rubi l’idea”. L’umanità è pigra e la tua grande idea rimarrà nel cassetto per il resto della tua vita.
- Non programmare da subito un tempo di realizzazione relativamente accettabile. Un anno, dieci anni. Non importa, ma ad un certo punto bisogna riconoscere se si è in grado di “uscire” ad affrontare il mercato. Diversamente è un esercizio di stile, molto pericoloso.
Francesco è stato coerente, affrontando il primo step del suo successo con un insuccesso. Il prototipo era funzionante, con un costo di produzione accettabile, realizzabile in tempi ragionevoli, con uno buona usabilità anche grazie alle informazioni ricevute dai tester, ma il suo marketing ha sottovalutato l’impatto del cambiamento degli standard tecnologici e materici rendendo il suo prototipo già vecchio ancor prima di andare sul mercato.
Oggi Francesco, grazie alla sua coerenza ed a quanto ha imparato dal fallimento è felice ed ha successo attraverso il mondo emergente dei bigdata, non è un unicorno ma non è nemmeno uno dei tanti animali mitologici che galleggiano sullo storytelling “da banco” in cui la pseudoscienza a costo zero rende miliardari in Silicon Valley attraverso l’intelligenza artificiale.
La felicità umana di creare fallendo rimarrà tale fino a quando le macchine non impareranno a sbagliare e a piangere. Nessuna macchina potrà avere la coscienza umana del processo creativo, ma solo simularne in modo esponenziale gli effetti. Questo forse è l’unico motivo per cui oggi, per ritrovare pulsione creativa, è necessario prendersi ogni tanto una coscienziosa pausa dalla pervasività tecnologica.
Emily Howell è un interfaccia interattiva creata dal prof David Cope in grado di auto-apprendere dalle emozioni degli ascoltatori durante le sue performance costruite attingendo a precedenti composizioni create tramite un altro software chiamato Experiments in Musical Intelligence
Ti lascio alla lirica di questo piccolo esperimento sci-fi del regista Oscar Sharp e del ricercatore Ross Goodwin, generato da un computer addestrato attraverso decine di pellicole e serie fantascientifiche.