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Massimiliano Vurro

E se li lasciassimo sognare?

L’imprevedibilità umana sarà la costante del nostro futuro tecnologico.

Un futuro che ogni genitore prova generosamente ad immaginare per i propri figli, ipotizzando il miglior set di valori imprescindibili come naturale conseguenza di un’istruzione affidabile.

Ma siamo oggi davvero in grado di prevedere quali saranno i valori fondanti di una neo-società tecnologica che borbotta impaurita di scatolame cibernetico e sostituzione occupazionale?

No, non lo siamo. Ed è per questo motivo che nessuno ha previsto con ragionevole anticipo l’ascesa di Trump, lo scivolone su Brexit, lo spiaggiamento di oltre 400 esemplari di balena pilota sulle coste della Golden Bay in Nuova Zelanda e una pandemia.

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Mettiti il cuore in pace allora e smetti di pensare che farcire di coding e di corsi di cinese, le giornate dei tuoi figli sia un vantaggio competitivo. Non lo è più e non servirà a nulla.

Nel 2030 i software scriveranno software ed in ogni toilette ci sarà un assistente vocale, capace di tradurre in ciascuna delle centinaia di varianti linguistiche cinesi le tue imprecazioni per aver perso un microchip neuronale nella tazza del cesso.

Solo allora avrai compreso pienamente che il modello educativo tradizionale, così familiare e rassicurante, non era necessario.

Oggi, un esperto locale, che si tratti di un insegnante, di un trainer, di Cortana, di un collega entusiasta o, se non sei abbastanza fortunato, di uno speaker motivazionale che promuove su Linkedin il suo ultimo libro “Ottomila modi meno uno per avere successo ed anche insuccesso”, costituiscono una delle nostre principali fonti di conoscenza. Ascoltiamo (in realtà questo lo fanno maggiormente i giovani), leggiamo e poi impariamo.

Questo è il modello che bene o male fruiamo anche on-line con le piattaforme FAD (formazione a distanza) di seconda e terza generazione.

Ma il futuro dell’istruzione è molto più specializzato, molto più personalizzato, molto più pervasivo ed orientato al superamento della “distanza sociale”, al di là di quella puramente geografica.

Per questo motivo penso che un’istruzione universitaria tradizionale e locale – uno a uno o uno a molti – sia la cosa peggiore che possa capitare ai miei figli.

Oggi, così come i musicisti locali hanno lasciato il posto a pop star internazionali che lanciano i loro tormentoni dalla cucina dei genitori, allo stesso modo, la formazione sta diventando di dominio globale imperniata sul principio del connettivismo di Siemens ampiamente criticato da studiosi come Antonio Calvani, che ne vedono però solo l’aspetto più sciatto.

Un trasferimento selvaggio del connettivismo alla scuola può indurre a credere che basti mettere gli allievi in rete per produrre conoscenza, consolidando quel famoso stereotipo diffuso, secondo cui più tecnologie si usano, in qualunque modo lo si faccia, e meglio è per l’apprendimento

Questo scenario di apprendimento non è poi così recente ed affonda le sue radici nel lontano 1874, quando l’Illinois Wesleyan University ebbe il coraggio di somministrare i primi corsi universitari a distanza, spedendo via posta le lezioni.

Nei primi del novecento Radio Canada inserì nella sua programmazione trasmissioni educative rivolte agli agricoltori perché potessero migliorare e aggiornare le tecniche professionali senza esser costretti ad abbandonare il luogo di lavoro.

In Italia, con l’avvento della televisione nel 1954, la RAI tentò un esperimento con la trasmissione di “Non è mai troppo tardi. Corso di istruzione popolare per il recupero dell’adulto analfabeta”.

In otto anni di vita questo programma consentì ad un milione di analfabeti di ottenere la licenza elementare.

Nel 2006 Salman Khan, fondò la Khan Academy, un canale youtube per l’istruzione primaria e secondaria, progetto a cui si sono poi ispirate piattaforme MOOC (Massive Open Online Courses) come Coursera, Edx, Udemy, con l’intento di rendere liberamente fruibile on-line un enorme quantità di contenuti.

You can learn anything. For free. For everyone. Forever.

Nell’autunno 2011 la Stanford University erogò gratuitamente un corso post laurea di intelligenza artificiale (oggi migrato su Udacity) al quale si sono iscritti circa 160.000 studenti provenienti da 190 paesi. Io c’ero, ed ero lo studente numero 135.978!

Cosa ci ha insegnato questa evoluzione?

Lev Vygotskij, di cui non condivido in pieno l’idea che sia l’ambiente culturale a consentire lo sviluppo cognitivo, ipotizzò nella sua teoria della zona di sviluppo prossimale che l’apprendimento del bambino si svolge con l’aiuto degli altri.

Tradotto, attualizzato ed applicato in età adulta, ciò significherebbe che i nostri colleghi ed amici ci aiutano ogni giorno ad imparare ed ottenere più di quanto non possiamo apprendere da soli.

Impariamo dagli altri come mai prima nella storia umana: a distanza, ad istanza, in prossimità e con il mantello dell’ubiquità che ci ha donato internet.

Impariamo meglio anche grazie a quanto gli altri apprezzano ciò che facciamo ed è forse questo il vero motivo della spasmodica ricerca di approvazione sui social da parte dei giovanissimi.

Nei processi di apprendimento sociale, i giovanissimi sono preparati -anzi istruiti!- a gestire il rifiuto e la mancata approvazione delle loro competenze, dei loro ideali, dei loro sogni?

Dopo la rivoluzione industriale abbiamo considerato la matematica, la lettura e la scrittura come gli elementi di base per la sopravvivenza; le migliori leve per il nostro lavoro, per produrre valore e generare l’ingombrante ROI (ritorno dell’investimento) per chi ci avrebbe assunto.

Ma guardando ai fatti, le aziende oggi si lamentano per le scarse capacità dei laureati, spesso motivatissimi ma obiettivamente formati su competenze obsolete ancor prima di arrivare sul mercato e istruiti sapientemente a non mettere in discussione il sapere così duramente conquistato a colpi di crediti universitari.

Così oltre il 60% dei candidati ad una posizione lavorativa invia la propria candidatura pur non possedendo i requisiti minimi richiesti – fonte: https://www.recruitmentgrapevine.com/– rivelando l’assenza di capacità critica ed autocritica.

Questo il motivo per cui le aziende più tecnologiche iniziano a cercare laureati in scienze umanistiche.

Insomma la responsabilità e la capacità di vedere l’innovazione da parte di chi oggi scrive i programmi ministeriali ed i sistemi di valutazione nella scuola è enorme.

Per fare un esempio pratico, i migliori a scuola da sempre sono quelli che più facilmente e rapidamente ricordano le informazioni.

Ma oggi l’informazione è immediata, diffusa, abbondante, non sempre vera.

Così in un mondo di meta-verità e meta-linguaggi, essere in grado di formarti un’opinione critica, riavvolgendo ciò che ti ha raccontato un robot, diventa una abilità molto più importante rispetto alla conoscenza stessa, facilmente e velocemente reperibile.

Con questo non voglio dire che imparare a scrivere sia una perdita di tempo, ma siamo sicuri sia ancora una priorità in un futuro di interazione con riconoscitori vocali e tastiere a 6 gradi di libertà?

Così come nel campo della matematica, sarà ancora necessario sorbirsi noiosissime annualità logaritmiche nelle scuole politecniche o sarà forse meglio iniziare ad insegnare ciber-etica e filosofia quale risposta felice al nuovo ruolo che gli esseri umani assumeranno nella società del futuro?

Le risposte non le ho, ma sto correndo, da buon padre di famiglia, il rischio che una nuova verità molto inquinante e sempre accesa sul comodino mi permetta di imparare in un anno di informazioni “convogliate” su Twitter più di quanto non abbia appreso in un anno di università, generando più network di quanto non abbia mai potuto costruire in 20 anni di relazioni aziendali.

Ovvio, non è possibile cambiare tutto ora e non è nemmeno auspicabile abbandonare l’attitudine alla lettura in giovane età, ma forse è giusto iniziare a smascherare l’inadeguatezza di alcuni modelli educativi e professionali, lasciando il campo alla capacità di sognare dei nostri figli ed alla nostra volontà genitoriale di infondere loro equilibrio, velocità critiche ed autonomia, senza paura che il loro tempo trascorso on-line ci restituisca l’immagine dell’incapacità di vivere insieme, genitori e figli, un futuro inimmaginabile.

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