Durante una recente consulenza aziendale, mi sono imbattuto in un “cortocircuito” che mi ha fatto riflettere profondamente sulla felicità nei luoghi di lavoro e tornare col pensiero alla società distopica descritta in “Brave New World” di Aldous Huxley. Nel romanzo la felicità è imposta attraverso il controllo e la manipolazione e gli individui sono condizionati sin dalla nascita a svolgere ruoli specifici all’interno della società e a evitare ogni forma di dissonanza o sofferenza attraverso l’uso della droga della felicità, il soma.
La società descritta in “Brave New World” sembra avere tutto: stabilità, efficienza e, soprattutto, una parvenza di felicità universale. Ma, a ben vedere, questa felicità è superficiale e priva di significato, ottenuta al prezzo della soppressione della libertà individuale e della profondità emotiva.
Analogamente, in molte organizzazioni contemporanee, la ricerca della felicità lavorativa può spesso essere fraintesa o, peggio ancora, manipolata. Si cerca di creare un ambiente apparentemente sereno e produttivo, ma spesso a discapito del benessere autentico dei dipendenti.
La pressione per mantenere buoni livelli di performance, la competitività esasperata e la mancanza di autonomia possono portare a una forma di “felicità forzata” che ricorda quella descritta da Huxley. I dipendenti sono spinti a conformarsi a standard rigidi e ad adottare atteggiamenti positivi a tutti i costi, spesso con l’ausilio di incentivi superficiali come benefit aziendali, eventi sociali o peggio ancora attività di psicologia collettiva.
A questo si è aggiunta la crescente presenza di intelligenza artificiale nelle organizzazioni che sta accentuando la disconnessione tra i lavoratori e il significato di scopo del lavoro stesso poiché le macchine assumono o assumeranno compiti che erano una fonte di orgoglio e realizzazione per gli individui e questi ultimi possono sentirsi alienati e sottovalutati.
Ma cosa ci insegna davvero Huxley sulla felicità nelle organizzazioni, specialmente in un’era dominata da tecnologie che sembrano uniformare, per non dire appiattire, il pensiero critico e la creatività degli individui?
Innanzitutto, che la vera felicità non può essere imposta dall’esterno. La felicità autentica nasce dalla possibilità di esprimere se stessi, dall’avere uno scopo organizzativo e di appartenere a un gruppo in cui si è rispettati e valorizzati. In un’azienda, questo significa promuovere una cultura organizzativa che valorizzi la diversità, l’autonomia e la crescita personale sin dal primo giorno di lavoro, anzi no, sin dall’annuncio per la ricerca di un nuovo profilo. In tutto questo IA può fare ben poco a mio avviso.
Ma forse la lezione più importante che possiamo trarre da “Brave New World”, indipendentemente dal bias mistico e religioso e dal periodo in cui è stato scritto, è che la felicità non può essere disgiunta dall’etica e dalla dignità umana. Un ambiente di lavoro realmente felice è quello in cui i dipendenti sono trattati con rispetto, equità e giustizia, e in cui hanno la possibilità di crescere come individui completi, anche nella loro umana infelicità senza mai dimenticare che la sofferenza che abbonda nei luoghi di lavoro, è la riprova che la felicità al lavoro non è mai data dalla somma di individui felici.
Le aziende del futuro, quelle che veramente prospereranno, saranno quelle capaci di offrire ai propri dipendenti non solo un lavoro, ma soprattutto un proposito, ben oltre la dimensione psicologica e spazio-temporale della produzione “fordista”.
Riflettendo su queste idee, mi rendo conto che molte organizzazioni, nel loro desiderio di creare ambienti di lavoro felici, possono inconsapevolmente cadere nella trappola di una felicità “artificiale” simile a quella del mondo di Huxley ma per fortuna e per buona pace degli entusIAsti dell’ultima ora, prendendo in prestito le parole di Becky Chambers, “non c’è tecnologia più potente dell’empatia e della comprensione reciproca”.